Una violenza strutturale

Che si tratti di stupri o di femminicidi, di norme che violano o limitano la libertà o ancora del tentativo di imporre ruoli fissi e precostituiti, è palese che viviamo in un sistema di violenza strutturale contro le donne. In Italia, come nel resto del mondo.
Ma quello della violenza maschile contro le donne, per quanto abbia acquisito sempre più spazio sui mezzi di comunicazione – seppure in maniera spesso impropria e superficiale –, non è un fenomeno nuovo, bensì un fenomeno che negli ultimi anni ha assunto nuove implicazioni e nuovi significati. Se fino a qualche decennio fa era espressione dell’esercizio del potere maschile, oggi è anche sintomo del collasso di quel potere, di quell’ordine simbolico, in crisi di fronte ai cambiamenti intervenuti nelle relazioni tra i generi con l’affermazione delle donne nel mondo. Cambiamenti cui non è corrisposto un mutamento dell’immaginario maschile.
Le donne hanno pensato, creato, innovato, in ogni ambito del sapere. E, in un circolo virtuoso i cui elementi sono sia causa che effetto l’uno dell’altro, si sono reinventate. Ma altrettanto non è accaduto per gli uomini che non hanno – ancora e nel complesso – scoperto una loro nuova soggettività. D’altronde l’asimmetria dei rapporti tra i generi – allora come oggi a tutto svantaggio delle donne – ha fatto sì che uno dei soggetti fosse più interessato dell’altro al prodursi di un cambiamento, nel privato come nel pubblico.
La violenza di cui le donne sono oggetto va infatti al di là dei rapporti individuali uomo-donna. Non si limita alla violenza – fisica o psicologica – di cui una donna su tre tra i 16 e i 70 anni sarà vittima nell’arco della propria vita, ma si manifesta anche in tutti quei dispositivi normativi che sottraggono alle donne la possibilità di decidere della propria salute riproduttiva o nell’assenza di strutture che ne favoriscano l’occupazione (non a caso, due dei parametri utilizzati per stilare il Global Gender Gap Index, l’indice del World Economic Forum che analizza il divario di genere nel mondo). Nonché in tutti quegli stereotipi di genere prodotti e legittimati dal discorso pubblico che danneggiano tanto le donne quanto gli uomini, «costringendoli in “maschilità” che, socialmente costruite, forniscono un’immagine speculare dell’oppressione femminile» (Concilium, 4/2012).

Se Dio non è più "il Padre" A questo sistema di violenza strutturale, le religioni hanno, nel corso dei secoli, dato un vigoroso contributo. A partire, come rilevato dalla teologa femminista Elizabeth A. Johnson, da quella «consuetudine secolare» di parlare di Dio con un linguaggio – fatto anche di immagini – «che descrive il potere maschile». Perché, per dirla con Mary Daly: «Se Dio è maschio, il maschio è Dio».
Ma per andare «al di là di Dio Padre» non basta affermare il volto femminile di Dio: in questo approccio si cela infatti quel dualismo – che vuole uomini e donne complementari, attribuendo agli uni e alle altre caratteristiche che sarebbero proprie del genere di appartenenza (e da cui derivano distinti ruoli sociali) – creato e utilizzato storicamente dal patriarcato per il mantenimento dello status quo.
Non a caso le teologhe femministe – le quali, checché ne pensi papa Francesco, da decenni hanno elaborato ben più di una “teologia della donna” – «sostengono che le donne sono in grado di rappresentare nella sua pienezza il mistero di Dio allo stesso modo, adeguato e inadeguato, in cui lo hanno fatto per secoli le immagini maschili» (Johnson).
Notevoli sono le resistenze a tutti questi cambiamenti, nella società e nelle Chiese. Basti pensare alla polemica nostrana circa il diffondersi della – quanto mai fantomatica – “ideologia gender”. D’altronde, come rileva la teologa tedesca Regina Ammicht Quinn (Concilium, 4/2012), le questioni relative al genere «sono considerate ideologiche e perciò pericolose: e lo sono davvero! Pensare con categorie critiche di genere è rischioso. Non tanto per il fatto che qui vengono prodotte delle ideologie quanto perché le ideologie vengono rese manifeste, vengono smascherate».
Affrontare questa sfida è impegno non più prorogabile ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare il secondo numero speciale sui diritti incompiuti promosso dalla nostra associazione, Officina Adista, e finanziato con il contributo dell’8 per mille della Chiesa valdese, ad alcune delle questioni ancora aperte, quelle più prettamente legate al religioso, della «rivoluzione più lunga».
A introdurci in questo impervio cammino è Nicoletta Dentico che traccia un quadro generale di questa tragedia immutata della storia umana. Alla scrittrice María López Vigil abbiamo chiesto di evidenziare come la violenza contro le donne sia anche frutto del mancato recepimento delle teologie femministe da parte delle Chiese. La teologa battista Elizabeth Green ha posto la questione ribaltando la prospettiva: non sono le donne a essere invisibili o a stare in silenzio ma sono la loro presenza e la loro voce a essere sottoposte a una negazione permanente. La presidente del Coordinamento teologhe italiane, Cristina Simonelli, si è invece cimentata in una riflessione sulla cosiddetta “ideologia gender”, ponendo l’accento sulla necessità di un dibattito scevro da posizioni pregiudiziali.
Alla teologa valdese Daniela Di Carlo l’arduo compito di offrirci qualche barlume di speranza a partire dalle “buone pratiche” messe in campo nella Chiesa valdese. (Ingrid Colanicchia)


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* Illustrazione di Stefania Anarkikka Spanò