Sei dei nostri o degli altri? (Gs 5,13). Note sul dibattito gender

Metterei la ricognizione che è affidata a queste note sotto il versetto biblico che ne costituisce il titolo. È tratto da un breve passo del libro di Giosuè, a sua volta incastonato nella presa incruenta di Gerico: lo stesso contesto, tra l’altro, che vede il protagonismo di Rahab, la prostituta che viveva sulle mura di Gerico, una delle quattro donne citate nella genealogia di Gesù (Mt 1,5). Mentre Giosuè si avvicina alla città, vede un uomo e domanda: “E tu? Sei dei nostri o dei nemici?”. L’angelo, che tale era, non accetta la domanda così posta, risponde altrimenti, perché non si tratta di schierarsi, di prendere parte a fazioni contrapposte. Piuttosto, riprendendo un tema biblico “classico”, rilancia: «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale stai è santo» (Giosuè 5,13-15).
Il riferimento vuole dunque essere duplice. In primo luogo abbiamo necessità di uscire dagli schieramenti contrapposti per assumere un altro punto di vista, quello del confronto e del rispetto. Il secondo suggerimento offerto dal passo biblico è quello che parte dal rispetto e lo approfondisce, proprio perché invita a togliersi i calzari, come di fronte al mistero, alla santità – quella di ogni vita.
Ho molte volte fatto ricorso a questo brano, in passato, soprattutto in relazione a brutali schieramenti identitari – parafrasando il lessico in voga, potrei dire rom(o)fobici – ma l’ho recuperato nei mesi scorsi proprio in riferimento al clima che si è creato attorno al tema “gender”, che ha ogni tanto nuovi sussulti, a mio avviso meno diffusi e omogenei di prima, ma non per questo meno problematici (si veda Stefania Guglielmi sul sito di Noi Donne, 5/2/2016). La ricognizione che mi è stata affidata vuole prendere in considerazione la modalità delle reazioni “no/gender”. Questa indagine non è nuova: l’ha egregiamente condotta, tra gli altri, Rita Torti su Il Regno Attualità del novembre 2015, descrivendo una serata estremamente conflittuale in cui era stata chiamata a spiegare la posizione presa in una lettera scritta con altre donne di Parma. Riprendo pertanto solo le dinamiche nel loro complesso, facendo riferimento anche alla mia personale esperienza, ben sapendo che ognuno può trovare più ampia documentazione.

Sinodo e sinodalità: virtù corrispondente cercasi
Si è molto parlato, e con ragione, del passaggio dal sinodo episcopale alla sinodalità, almeno come istanza attivata dalla consultazione e dall’effervescenza che questa ha prodotto, dando a tante e tanti la spinta a partecipare, in una sorta, appunto, di rinnovata Chiesa/popolo, sinodale nel suo complesso. Ne traggo spunto per avanzare una riflessione, che nasce in maniera particolare dal dibattito cui ci stiamo riferendo: tutto il plesso che riguarda sessualità, differenza, genere/gender è questione estremamente seria e delicata. E, forse più di tante altre questioni contemporanee, chiede di essere affrontata in atteggiamento sinodale: evitando gli argomenti preconfezionati e gli schieramenti predeterminati.
Di questa modalità c’è bisogno: se ci sono segnali incoraggianti in questo senso – si pensi alla Nota dell’Ufficio Scuola della Diocesi di Padova in merito – si deve dire che non è questo lo spirito con cui si svolgono molte assemblee. Potrei dire che la stessa campagna no/gender, in tutte le sue forme, procede in forma violentemente assertiva, svolgendo gli argomenti a partire da presupposti che non vengono dimostrati ma postulati e spesso rifiutando il confronto e il contraddittorio. Ma è ancora più evidente il metodo anti/sinodale quando avviene il contrario, cioè quando gruppi organizzati presidiano gli incontri che tentano invece di argomentare in maniera diversa e con più sfumature, come necessario, il tema genere/gender: descriverò a mia volta alcuni di questi “scontri/più che incontri”, in cui la foga incalzante delle accuse tendeva a spuntarla su tutto il fronte, lasciando sbalorditi molti degli astanti, venuti per capire e non abituati a simile aggressività.
Gli elementi più appariscenti sono i seguenti, che traggo appunto da una serata effettivamente vissuta, ma con caratteristiche tipiche: dopo una articolata presentazione a tre voci (tema in generale e lettura pastorale, fondamento biologico e prospettiva giuridica), si scatena un incalzare di interventi, di signore, soprattutto, ma anche di signori che in dialetto (la cosa si svolge in Veneto) a voce spiegata urlano che dei perversi vogliono carpire i loro bambini, che nella tale scuola sono successe cose mostruose – ben difficili poi di fatto a essere provate, perché sfuggono a date, luoghi e precisazioni; soprattutto tutti parlano di omosessualità, descritta però in maniera deforme e assurda. Poi intervengono invece seri professionisti, che, vantando competenze di alto livello, completano, in forma diversa ma con contenuto analogo, la serata. Nel frattempo il parroco organizzatore, che secondo gli accordi avrebbe dovuto moderare la serata, resta in fondo alla sala e si rifiuta al ruolo concordato mentre l’altra metà circa degli intervenuti, tranne due di numero, restano allibiti senza riuscire a intervenire. L’insieme del discorso, che era partito dalla storia dell’uso della categoria di genere e dal suo legame con la questione femminile e la violenza, viene circoscritto unicamente ad un aspetto: appunto l’omosessualità o meglio lo specchio deformante in cui viene letta, in una vera omo/ossessione.
Tutto questo mi ha fatto molto riflettere: non basta trovarsi insieme per aprire il confronto, servono degli atteggiamenti che possono e dunque dovrebbero diventare costanti, cioè abiti, come venivano indicate le “virtù”. E da parte non solo dei cartelli no/gender, ma anche di tutti gli altri: è necessario creare spazi “regolati” di parola; è utile arrivare informati; è opportuno apprendere il coraggio di esprimersi. Altri contesti, ad esempio quello di un’assemblea coordinata da Mosaico di Pace in una parrocchia romana in cui ho partecipato insieme a Massimo Gandolfini (uno degli organizzatori del Family Day) e Andrea Rubera (di Nuova Proposta), hanno avuto invece altro esito, proprio per la cura con cui è stato esercitato il plesso di virtù indispensabili alla sinodalità. Se il clima non è arroventato e, sia pure verbalmente, violento, è possibile argomentare: del resto, come ha osservato l’antropologo Franco La Cecla, la contrapposizione non è mai utile, neanche sul fronte liberal e democratico, se stringe su posizioni a “cartello”: non mi sta bene neanche una posizione sì/gender, voglio utilizzare le categorie in maniera critica e declinare in maniera altrettanto diversificata le posizioni politiche. Come sottolinea Lucia Vantini all’inizio del suo Genere, «[queste pagine vorrebbero piuttosto essere] un invito ad ascoltare con maggiore attenzione ciò che si muove attorno alla questione, oggi riduttivamente presentata nella forma di una rigida alternativa: o si è pro o si è contro il “genere”. La filosofa Franca Agostini collocherebbe questo ragionamento fra i cosiddetti “falsi dilemmi”, cioè fra quelle situazioni in cui il pensiero si incaglia di fronte a un bivio costituito da due possibilità ingenuamente disegnate e del tutto incompatibili tra loro».

Di cosa stavamo parlando?
A questo punto, la descrizione delle dinamiche degli incontri, per essere completa dovrebbe estendersi all’implicazione ecclesiale ed ecclesiastica, anche questa a mio parere meno compatta di qualche tempo fa: resta il fatto che in molte diocesi – non tutte però! – la tournée no/gender ha girato capillarmente parrocchia per parrocchia, contribuendo a una grande confusione, fatta passare in maniera surrettizia, al contrario, come chiarezza. In tutto questo, infatti, alla fine, si perdono le coordinate delle questioni in gioco.
Penso che anche in questo caso la cosa migliore sia segnalare studi che possano in maniera non superficiale né frammentaria condurre a una discussione adeguata e per questo rimando nuovamente al volume di Lucia Vantini appena citato (Genere, EMP 2015), che riesce a presentare la posta in gioco in maniera articolata, comprensibile senza essere scontata. Qui vorrei fare cenno solo ad alcuni dei nessi che legano al tema della violenza questa progressiva riduzione del dibattito: in primo luogo la violenza esercitata sulle donne, fisica, psicologica, economica. Il sequestro del dibattito attorno alla omosessualità ottiene il risultato di lasciare senza parole e senza spazio di riflessione un fenomeno invece imponente come non mai, che va dalla tratta al femminicidio, dallo stupro agli abusi, alla discriminazione sul lavoro e anche alle forme di “maternità per altri”. Contemporaneamente contribuisce a produrre quello che viene chiamato gender backlash, cioè il ritorno a modelli patriarcali di attribuzione di ruoli, che apparivano desueti in Italia già negli anni ’80 del secolo scorso. Ma non è l’unico ambito di violenza: le cose che vengono dette rispetto all’orientamento omosessuale sono cattive e ingiuste, appunto violente. Tanto è forte questa ossessione da travolgere in un mondo di insulti – o presunti tali da chi li utilizza – anche chi si avvicina soltanto al tema.
Per tutto questo, concludo tornando al brano biblico da cui ho iniziato. La sfida vera è quella di non perdere l’occasione per imparare a togliersi i calzari davanti alla santità di ogni vita: sguardo sim/patetico e contemplativo senza il quale anche la misericordia perde il suo significato più profondo, che non è esercitare sdolcinata pietà, ma patire/con ognun/*.


L’autrice di questo articolo è Cristina Simonelli, presidente del Coordinamento teologhe italiane. È docente di Teologia patristica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano). Ha vissuto in contesto rom dal 1976 al 2012.


* Illustrazione di Stefania Anarkikka Spanò

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