I figli e i cani. Quando la Parola abbatte ogni muro

Nati da esperienze e tradizioni maturate in una cultura nomade, molti testi biblici aiutano a scoprire usi e costumi che hanno portato l’ospitalità a essere considerata, più che un dovere, un valore sacro. Le aspre condizioni di vita nel deserto avevano condotto i nomadi a fare di necessità virtù e dell’accoglienza una questione di sopravvivenza: l’accettazione nell’accampamento, anche per il nemico, significava la vita, mentre il rifiuto equivaleva alla morte. Il capo dell’accampamento era responsabile dell’incolumità dell’ospite, al punto che la vita del forestiero era ritenuta più importante di quella dei membri della sua stessa famiglia, come dimostrano gli episodi di Sodoma (Gen 19,1-8) e di Gàbaa (Gdc 19,11-30). L’ospite non veniva semplicemente accolto, ma festeggiato, dando così un chiaro segnale che un’ag­gressione ai suoi dani non sarebbe stata tollerata (Sal 23,5). L’accoglienza, concessa anche al nemico, permetteva la conoscenza, e questa portava di solito a una riconciliazione, alla scoperta di valori comuni, al di là delle divisioni tribali. L’ospitalità era l’arte che trasformava l’ostilità in accoglienza, la diffidenza in interesse, il problema in opportunità, il lontano in vicino. L’ospite poteva rimanere fino a un massimo di tre giorni gratuitamente, e in tutto questo tempo aveva la piena protezione di tutta la tribù. Secondo la Bibbia, la divinità premiava chi era ospitale, e spesso Dio stesso si presentava sotto le sembianze dell’ospite, come descrive l’episodio delle Querce di Mamre, dove Abramo accoglie generosamente tre uomini nei quali riconosce il suo Signore (Gen 18,1-33), e nella Lettera agli Ebrei l’autore ammonisce: «Non dimenticate l’ospitalità, alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Eb 13,2). Nella legislazione mosaica sono inserite diverse norme per la protezione dello straniero («Non maltratterai lo straniero e non l’opprimerai, perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto», Es 22,21) e Giobbe, nell’elencare i suoi meriti, dichiara «All’aperto non passava la notte il forestiero e al viandante aprivo le mie porte» (Gb 31,32). Nella Prima Lettera a Timoteo l’ospitalità è elencata tra le qualifiche necessarie per esercitare l’ufficio del vescovo (1 Tm 3,2).

Maggi INTUna proposta evangelica
A mano a mano che la società da nomade si trasformava in sedentaria, che la pastorizia veniva rimpiazzata dall’agricoltura e l’accampamento provvisorio si mutava in stabile città protetta da mura, l’accoglienza veniva gradualmente perdendo la sua sacralità. Al tempo di Gesù vige una separazione totale tra giudei e stranieri, come riconosce Pietro: «Voi sapete come non sia lecito a un giudeo di aver relazioni con uno straniero o di entrar in casa sua» (At 10,28; Gal 2,12.15-16). Ogni ebreo era tenuto a recitare tre volte al giorno una benedizione nella quale ringraziava Dio per non essere stato creato pagano. Gli stranieri venivano esclusi dal concetto di prossimo e l’esclusione proseguiva anche dopo la morte: la loro sepoltura infatti non poteva essere quella degli appartenenti al popolo eletto, ma era a parte, in un luogo considerato impuro (“Il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri”, Mt 27,7). In questo contesto sorprende l’affermazione di Gesù che arriva a identificarsi proprio con quelli che erano considerati gli ultimi della società: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35.43). E se Gesù proclama benedetti quanti avranno accolto e ospitato lo straniero («venite benedetti del Padre mio», Mt 25,34), ritiene maledetti quelli che non lo fanno («via, lontano da me, maledetti… perché ero straniero e non mi avete accolto», Mt 25,41.43). Negare l’aiuto all’altro è come ucciderlo, per questo chi si chiude alla vita si auto-maledice. Lo straniero era visto come il bisognoso, ma nei vangeli le figure degli stranieri, eccetto Pilato in quanto incarnazione del potere, sono tutte positive e portatrici di ricchezza. I primi stranieri che appaiono nei vangeli sono i magi (Mt 2,1-13), pagani che annunciano agli ebrei la nascita del loro re e, mentre tutta Gerusalemme, con Erode, è presa dal terrore per quel che perderà, i magi provano grandissima gioia per quel stanno per donare. Gesù, che si troverà di fronte ottusità e incredulità persino da parte della sua famiglia e dei suoi stessi paesani, resterà ammirato dalla fede di uno straniero, il centurione, e annuncerà che mentre i pagani entreranno nel suo regno, gli israeliti ne resteranno esclusi (Mt 8,5-13; Mt 27,54). Nella sinagoga di Nazaret, Gesù rischierà il linciaggio per aver avuto l’ardire di tirare fuori dal dimenticatoio due storie che gli ebrei preferivano tralasciare: Dio, in casi di emergenza e di bisogno, non fa distinzione tra il popolo che si considera eletto e i pagani, ma dirige il suo amore a chiunque lo necessiti. Così nel caso di una grande carestia che colpì tutto il Paese, il Signore aiutò una vedova a Sarepta di Sidone inviandole in soccorso il profeta Elia (Lc 4,26), e con tutti i lebbrosi che c’erano al tempo del profeta Eliseo, il Signore guarì Naamàn, “il Siro”, capo dell’esercito del re arameo (Lc 4,27). I samaritani erano considerati un popolo meticcio ed eretico. Eppure Gesù li proporrà come modelli di comportamento (Lc 10,29-37) e ne elogerà la fede (Lc 17,11-19), e saranno i samaritani a riconoscere in Gesù l’atteso Messia («Questi è veramente il salvatore del mondo!», Gv 4,42). Non sarà un ebreo a portare la croce di Gesù, ma uno straniero, Simone di Cirene (Mt 27,32), ed è alquanto singolare che i primi a essere riconosciuti e chiamati cristiani non furono i discepoli di Gerusalemme, ma, in terra straniera, uomini provenienti dal mondo pagano: «Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26). Paolo, dopo un naufragio, si stupirà per la «rara umanità» con cui lui e gli altri naufraghi sono stati ospitati dai barbari di Malta (At 28,2), e comprenderà una verità importante: «Qui non c’è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Col 3,11; Gal 3,28).
Non è stato facile per Gesù far capire ai suoi discepoli, fedeli alla tradizione che vedeva nei pagani dei nemici da eliminare (Dt 7,1-6; 20,16-18), che non esistono popoli eletti, che nessuno può rivendicare dei privilegi e delle precedenze presso il Signore, perché il suo amore non riconosce alcun confine tracciato dagli esseri umani, dalle religioni, dalle razze. L’episodio nel quale Gesù insegna che non ci sono degli aventi diritto e degli esclusi, ma che tutti allo stesso tempo sono oggetto dell’amore del Signore, è l’incontro con una donna straniera (Mt 15,21-28; Mc 7,24-30). In terra pagana, «verso la zona di Tiro e di Sidone», Gesù incontra una donna cananea (fenicia), che lo invoca perché guarisca la figlia: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio» (Mt 15,21-22). La donna vede in Gesù un inviato di Dio («Signore») che può soccorrerla, ma, allo stesso tempo, identificando in Gesù il «figlio di Davide», il re vincitore dei pagani, la donna si considera esclusa dalla salvezza portata dal Messia al suo popolo. E Gesù allora le risponde come le avrebbe risposto il re Davide: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 15,24). Per la tradizione giudaica il Messia, nella sua funzione di pastore, si doveva interessare solo del gregge d’Israele (Ez 34,4.6.16). Di fronte all’insistenza della donna, Gesù aggiunge: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini» (Mt 15,26). Termine molto ingiurioso col quale s’indicavano i pagani e gli avversari (1Sam 17,43; Sal 22,17.21): trattare qualcuno come un cane significava considerarlo escluso dall’attenzione divina; non c’è uguaglianza tra gli appartenenti al popolo eletto e gli esclusi, gli uni sono figli e gli altri cani, animali ritenuti impuri e strumenti del demonio. Come mai questa durezza da parte di Gesù, che è sempre compassionevole con tutti? Con la sua risposta spietata, Gesù vuole aiutare la donna (e nello stesso tempo i discepoli) a comprendere la disumanità di un’ideologia che divideva gli uomini tra quelli meritevoli dell’aiuto divino e quelli esclusi. E la donna intuisce. Si rivolge di nuovo a Gesù chiamandolo questa volta solamente «Signore» e non più «figlio di Davide»: «È vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni» (Mt 15,27). La donna ha compreso la lezione di Gesù: non ci sono dei figli e dei cani, ma tutti possono cibarsi allo stesso tempo dell’unico pane che alimenta la vita. La donna pagana comprende quello che i discepoli fanno ancora fatica a capire e ad accettare, cioè che la compassione e l’amore superano le divisioni razziali, etniche e religiose, e sostiene che un gesto di umanità non si rifiuta mai ad alcuno. La reazione di Gesù è di grande ammirazione «Allora Gesù le replicò: Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri» (Mt 15,28). Con Gesù che non è il figlio di Davide, bensì «il figlio del Dio vivente» (Mt 16,16), il cui regno non ha confini, non si possono in alcun modo innalzare barriere, ma solo abbattere i muri che gli uomini hanno costruito («egli infatti è la nostra pace, colui che dei due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che ci divideva…», Ef 2,14). Non solo i muri esteriori, forse i più facili da demolire, ma quelli interiori, ideologici, teologici, morali, religiosi, i più difficili da estirpare perché si credono di provenienza divina.


L’autore di questo articolo è Alberto Maggi, religioso dell’Ordine dei Servi di Maria, teologo, biblista, saggista, direttore e animatore del Centro studi biblici “Giovanni Vannucci” a Montefano (Mc). Info: www.studibiblici.it.


* Illustrazione di Mauro Biani, tratta dal libro Tracce migranti. Vignette clandestine e grafica antirazzista (Altrinformazione, 2015)

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